L’AI e l’Italia: una relazione che si consolida

Secondo l’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano le grandi imprese italiane si avvicinano lentamente all’AI ma ne colgono in fretta il valore. Così il mercato cresce, aspettando la maturazione delle PMI

Autore: Redazione InnovationCity

Ultime nell’Unione Europea per il loro tasso di “approccio” generale all’Intelligenza Artificiale – e non è certo un bene, anche se il fenomeno ha i suoi motivi – ma seconde quando si va a valutare il tasso di adozione concreta dell’AI, ossia la quota degli utenti che l’hanno inserita in progetti a regime e non sono di test. Queste sono le imprese italiane per come le descrive in questa fase del mercato l’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano. Un ritratto che ha diversi elementi confortanti ma che prevedibilmente conferma sia i classici gap tecnologici italiani rispetto alle medie europee, sia la storica difficoltà delle piccole-medie imprese a tenere il passo delle più grandi quando si tratta di innovazione.

Di buono c’è indubbiamente la crescita del mercato AI nazionale, che nel 2024 ha mosso qualcosa come 1,2 miliardi di euro, con una crescita del 58% rispetto al 2023. È quasi ovvio che molto di questa crescita sia legata all’appeal dell’AI Generativa, ma non in maniera eccessiva: soprattutto le sperimentazioni che utilizzano anche la Generative AI hanno rappresentato il 43% del valore, mentre il resto è stato costituito in prevalenza da soluzioni di Artificial Intelligence tradizionale.

Questo equilibrio – temporaneo, dato l’interesse generale per la GenAI – si riflette anche sulla distribuzione degli investimenti per settore di mercato: si spende di più negli ambiti dove l’AI è già collaudata (Telco/Media e Assicurazioni, seguiti da Energia, Utility e Banking/Finance) ma c’è anche una forte accelerazione di ambiti – come GDO e Retail – molto interessati alle applicazioni di AI più recenti. Conta ancora poco Pubblica Amministrazione, che punta molto sull’AI ma per ora fa solo il 6% del mercato.

Un freno storico

Come in altri settori dell’innovazione tecnologica, anche per l’AI l’Italia fa sempre un po’ più fatica a partire rispetto a molte altre nazioni europee. Considerando quelle più “propulsive” e con un peso di mercato maggiore (oltre all’Italia, si tratta di Francia, Germania, Irlanda, Olanda, Regno Unito e Spagna), se la quota media delle grandi imprese che hanno almeno valutato un progetto di AI è dell’89%, il nostro Paese si ferma all’81%. Se si guarda alla quota delle imprese che ha già un progetto AI attivo, poi, la media europea è del 69% e l’Italia staziona al 59%. Ossia all’ultimo posto tra i Paesi analizzati.

La storica “ritrosia” tecnologica delle PMI italiane non aiuta, peraltro, a risalire le classifiche di adozione dell’AI. Il 58% delle PMI nazionali è sì interessato al tema, ma solo il 7% delle piccole e il 15% delle medie imprese ha effettivamente avviato progetti concreti di Intelligenza Artificiale, puntando sullo sviluppo interno o rivolgendosi a fornitori esterni. I freni maggiori per l’AI nelle PMI sono probabilmente tecnologici e di approccio: non si fa Intelligenza Artificiale senza una gestione strategica, matura e strutturata dei dati, un prerequisito che però nelle PMI italiane raramente viene soddisfatto.

A pesare, per le aziende di qualsiasi dimensione, è comunque anche il fatto che l’AI e in particolare la sua “versione” generativa sono ambiti complessi e – specie la GenAI – in forte evoluzione lato strumenti effettivamente implementabili. Non a caso, l’Italia si posiziona assai meglio, nei confronti con l’Europa, quando si tratta di utilizzo di strumenti di GenAI pronti all’uso: il 53% delle grandi aziende ha infatti già acquistato licenze di tool GenAI (principalmente ChatGPT o Microsoft Copilot): più di Francia, Germania e Regno Unito. Le PMI non fanno questo “scatto”: solo l’8% ha acquisito licenze per tool AI pubblici, segno che a investire in tal senso sono per lo più le stesse che comunque già lavorano sull’AI, più una quota marginale e con investimenti estremamente contenuti.

Il pragmatismo dell’AI nazionale

Le imprese nazionali sono, di fronte all’AI, lente a muoversi e forse anche dubbiose sul ritorno possibile dei loro investimenti, al netto dell’hype di mercato che certo non manca. Ma il lato positivo della medaglia è il loro tradizionale pragmatismo: una volta che l’AI ha dimostrato un qualche valore, il passaggio dai progetti di test alle implementazioni vere e proprie può essere veloce. Il 25% delle aziende nazionali, infatti, ha già progetti a regime: una percentuale che ci pone al secondo posto tra le nazioni UE esaminate. Il 65% delle grandi aziende attive nell’AI – spiega poi l’Osservatorio – sta inoltre sperimentando anche nel campo della Generative AI, soprattutto per sistemi conversazionali a supporto degli operatori interni.

Non guasta nemmeno che le aziende stiano considerando abbastanza attivamente anche le principali problematiche collegate all’implementazione e all’utilizzo dell’AI. Ad esempio, il tema generale della compliance delle iniziative di AI, in particolare in riferimento all’AI Act europeo: il 28% delle grandi realtà attive in progetti AI ha adottato delle misure concrete per l’osservanza delle norme. Una percentuale bassa, sì, ma potrebbe essere decisamente peggiore perché in questa fase la chiarezza del quadro normativo non è esattamente cristallina. Tanto che il 52% delle imprese dichiara di non aver compreso a pieno l’AI Act e le norme collegate.

Più in generale, le grandi aziende italiane si mostrano consapevoli dei rischi di un utilizzo non governato dell’AI: in più di 4 su 10 ci sono linee guida e regole per l’utilizzo delle piattaforme e delle funzioni di Intelligenza Artificiale e nel 17% è vietato l’uso di tool non approvati, per evitare logiche di Shadow AI.

Cosa si fa con l’AI

Ma cosa fanno le aziende italiane con l’AI, in questa fase del mercato? Se guardiamo alle grandi imprese, più tecnologicamente evolute e pronte per l’Intelligenza Artificiale come direttrice di evoluzione tecnologica a lungo termine, i progetti più diffusi (34% dei casi) riguardano le funzioni di analisi/esplorazione dei dati e quelle predittive e per l’ottimizzazione dei sistemi e dei processi. Ad esempio: applicazioni per previsione della domanda, ottimizzazione dei flussi di trasporto o dei piani di produzione, identificazione di attività anomale o fraudolente. A seguire da vicino per diffusione (32% dei casi) sono le soluzioni di analisi testuale, classificazione e conversazionali. Più distanti (17%) sono i cosiddetti Recomendation System.

La crescente diffusione della GenAI influisce sul tipo di progetti in corso, ovviamente. Così i sistemi conversazionali sono quelli a maggior crescita (+86% anno su anno) e l’Osservatorio sottolinea come siano sempre più spesso impiegate tecniche di Retrieval Augmented Generation, che arricchiscono i Large Language Model standard con conoscenza verticale (normative, manuali, documentazione) di settore o addirittura propria dell’azienda utente. Anche i motori di raccomandazione stanno usando sempre più spesso componenti di GenAI, per comprendere meglio la semantica dell’interazione tra l’utente e le piattaforme che utilizza.


Se dalle grandi realtà si passa alle sole PMI, si nota che le iniziative di AI nascono per soddisfare necessità sempre importanti ma più basilari: i risultati cercati nei progetti di AI sono quelli più “tradizionali” e conseguibili a breve termine, come in primo luogo aumentare l’efficienza operativa e, nello specifico delle aziende di prodotto, l’ottimizzazione dei processi produttivi.

Nulla di nuovo sotto il sole, insomma, quando si parla della diffusione concreta delle nuove tecnologie nel tessuto imprenditoriale italiano. Ma le potenzialità ci sono tutte, grazie anche al fatto che a livello nazionale ed europeo sono state attivate diverse politiche internazionali pensate per sostenere la ricerca scientifica e tecnologica. E soprattutto grazie al fatto che l’Italia si posiziona bene, sullo scenario europeo, per la produzione scientifica in campo AI. Soffre semmai il trasferimento tecnologico, perché resta la difficoltà di puntare sulle “spalle larghe” della ricerca per far crescere realtà imprenditoriali innovative.


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